Maglie da calcio

Se il calcio cambia colori, le maglie nel pallone

Proponiamo uno splendido articolo scritto da Maurizio Crosetti sul quotidiano online di Repubblica.

Da cultori delle maglie non possiamo che essere d’accordo con lui, le maglie moderne troppe volte rischiano di allontanarsi dalle tradizioni che dovrebbero essere il cuore della squadre di calcio.

Nel pezzo c’è solo un piccolo errore in merito alla nuova divisa del Parma che in verità non sarà a righe gialloblù orizzontali.

LA MAGLIA è una bandiera, e l’hanno sporcata. La divisa della nostra squadra di calcio è una casa dove tornare, uno specchio dove vedere riflessa la passione di tanti anni, un ricordo d’infanzia, un segno di appartenenza tribale, è un colore dell’anima che non può sbiadire. Ma se arriva lo stilista e la pennella di fucsia o verde pisello, se insieme allo stilista c’è l’esperto di marketing che cancella simboli, tinte, riferimenti, allora il tifoso s’arrabbia di brutto.

E magari scende in strada urlando “una squadra una maglia”, come hanno appena fatto i sostenitori del Paris Saint Germain davanti al negozio ufficiale del club, sugli Champs Elysées. Infuriati, perché qualcuno gli aveva portato via una riga rossa e dentro quella riga rossa c’era un bel po’ della loro vita da stadio, non come nelle striscioline invisibili con cui l’hanno sostituita: risultato, la casacca del Psg è stravolta, non ricorda più la bandiera francese e va ripudiata.

Li chiamavano “colori sociali”: sono diventati una tavolozza confusa e griffata, un carnevale, un delirio creativo che spesso crea solo imbarazzo. Perché una nuova maglia significa soldi, e se il tifoso non la compra subito è vecchio, fuori moda, un matusalemme della curva. Si chiama merchandising, un giro d’affari europeo da 615 milioni di euro.

Così la Juve s’inventa la seconda maglia argentata con banda trasversale bianconera, dunque avremo Del Piero metallizzato come una Punto. La Lazio disegna una specie di bavaglino che vorrebbe essere un’aquila. Il Milan mette le maniche nere. La Roma, una striscia orizzontale all’altezza delle ascelle. Il Bari ha strani sbuffi rossi, il Palermo due bizzarre semicurve rosa, il Parma stacca le righe blu orizzontali su fondo giallo (ossa di scheletro?) e il Genoa, addirittura, crea una terza divisa come quella dell’Argentina.

Se la maglia di pallone è anche un segno di appartenenza, qui si rischia la crisi d’identità. E non va meglio alle nazionali: l’azzurro dell’Italia, cioè l’intenso e tradizionale blu Savoia (è così dal 1911, ma all’esordio la divisa era bianca) nell’ultima versione è un celestino slavato, a cui hanno abbinato pantaloncini color vinaccia: senza offesa, da vomito.

Eppure non è un astratto delirio creativo: cambiare significa fatturare. I tifosi inglesi, i più spendaccioni d’Europa, ogni anno scuciono in media 66 euro a testa per rifarsi il guardaroba (gli italiani, 24 euro). Anche spagnoli e tedeschi sborsano forte. I tifosi del Barcellona hanno dovuto rivestirsi da capo a piedi quando il club catalano ha deciso di togliere le storiche righe larghe “blaugrana”, sostituendole con quattro enormi scacchi tipo Genoa o Cagliari, per fortuna delle stesse tinte di prima. E il Manchester United ha appena messo una V nera sotto il colletto, vuol dire “victory” ma il pubblico non ha gradito: preferiva lo storico rosso fuoco. Come quando la maglia da trasferta del Torino diventò arancione. Una mezza rivolta di piazza si oppose allo scempio.

Ma perché le aziende e le squadre cambiano tanto? “Per rompere gli schemi, per ragioni di mercato e perché alla gente piace”. Marco Boglione, il “signor Robe di Kappa” (disegna, tra le altre, le maglie di Roma, Samp, Torino, Siena, Valencia e Borussia Dortmund) è stato il primo a mettere qualcosa di diverso su una casacca, quella della Juve. “Era il 1978 e gli omini del nostro marchio fecero scalpore. Io dico che la tradizione va rispettata, però innovando: il classico deve diventare contemporaneo, e poi conta la tecnologia. Come quando brevettammo la macchina per tessere le righe bianconere in verticale, oppure la Kombat aderente in tessuto elastico: un attaccante, con quella maglia addosso ha 80 centimetri in più di spazio utile. Perché quando il difensore si aggrappa, lui si allunga come un elastico”.

Ma non ci sono proprio limiti all’esuberanza cromatica? “Quando eravamo sponsor tecnico della Juventus, c’era il veto assoluto al rosso per la seconda maglia: avrebbe ricordato troppo il Toro. Ed è evidente che la Fiorentina non potrà mai essere bianconera”. A proposito dei viola: lo sapevate che quel colore nacque da un lavaggio sbagliato nel fiume? Prima la Fiorentina vestiva di biancorosso, poi l’Arno si occupò di trovare l’inconfondibile e storica tinta.

I soliti inglesi hanno stilato la classifica delle maglie più brutte di tutti i tempi: vince l’Hull City versione 1992, casacca più tigrata del perizoma di una cubista. Invece, la più bella secondo il “Times” è quella del Brasile 1970: il glorioso numero 10 indossato da Pelè nella finale dell’Azteca venne battuto all’asta da Christie’s nel 2002 per quasi 158 mila sterline, 253 mila euro. Quella casacca verdeoro apparteneva allo stopper Roberto Rosato che l’aveva scambiata con Pelè, e decise di venderla dopo trentadue anni per colpa di una grave malattia.

Curioso che se il creativo e l’amministratore delegato cambiano e fatturano, forse per reazione si scatena il ritorno del classico: nei negozi per tifosi e su Internet vanno forte le maglie vintage, con i colori e i materiali di una volta, senza sponsor, magari con i legacci al colletto e gli scudettoni cuciti a mano. Come un ricordo mai infeltrito, oppure è solo un modo di dire che una volta era meglio. E comunque le magliette super tecnologiche costano un occhio: nel giorno della presentazione di Kakà, il Real Madrid ha venduto 600 “camisetas” in due ore al costo di 100 euro al pezzo, e addirittura 3 mila di Cristiano Ronaldo. E magari si scopre, come nel caso della nazionale inglese, che le divise vengono prodotte da donne indonesiane pagate 2 euro per dodici ore di lavoro, in un’area circondata da filo spinato e guardie armate.

Per fortuna o purtroppo, i club italiani stanno parecchio indietro in questa forsennata corsa: per loro, il merchandising non incide in bilancio più del 5 per cento. Anche se i nostri stilisti sono tra i più scatenati: a Gigi Buffon, amante delle tinte forti, quest’anno toccherà una divisa verde acido. Ma ve lo immaginate Dino Zoff vestito da pennarello? “Per carità, io volevo solo il nero o il grigio” risponde il portierone mundial. “La nuova tendenza non mi piace affatto, e credo che almeno la prima maglia andrebbe rispettata al cento per cento. Poi, mi rendo conto che esistono pure gli sponsor. Il mondo cambia, però a me sembravano poco serie persino le maniche corte: ero un portiere, mica andavo al mare”.

Cosa ne pensate?